Più non riconcilierà Abele e Caino
goccia di mare nel suo nome
non andrà più al mare
non pescherà la paletta
sottratta dall’onda al bambino che frigna
non toccherà acqua
con quelle dita storcinate un poco dall’artrite
più non riderà a bocca chiusa
con gli occhi azzurrini stretti a fessura
quando è orgogliosa e però non dice l’emozione
perché la figlia scalciando non lasci il corrimano
e perda la misura
e più non scenderà le scale per appurare
se vale comprare il palàmito o la tonnina
cantata dal banditore nel vicolo sotto Castellaccio
non tirerà più la catenella dell’acqua
e io che sto al piano di sopra
non sentirò lo sciacquone
e se ora mi capita di sentirlo
so che la sua mano non c’entra nulla
con tutto questo gorgòglio e brontolio
di acque strozzate nelle tubature
perché realizzo che sono a Roma
e non a Messina
ma il trasalimento resta lo stesso
di quando ragazza abitavo la stanza di sopra
e sentivo i suoi rumori
e ogni volta è un soprassalto
più non riconcilierà Abele e Caino
e a Pasqua non cucinerà l’agnello
per i figli che tornano a casa
la danza e il salto sono compiuti
Pasqua è passata e il fornello è spento
e più non mi soppeserà compunta
come fa la gatta che lecca
e accarezza con gli occhi la mìciola smunta
non pregherà più
e la sua requie materna in pace
non riconduce più il latino
al grembo della madre
con le sillabe affrante del cuore
più non punterà dritti gli occhi
sulle facce degli amici e dei nemici
sulle feci e i pidocchi dei marmocchi
scrofolosi itterici e picciosi
sul sangallo e la fiandra
sulla tela di agave lavorata
nella contrada del camposanto
o sui dolcini di ricotta e gelsomini
e più non darà consigli
e non mi dirà non fare la baccalara
che inghiotte a bocca aperta
perché tutti si fanno i conti in tasca
con qualche rarissima eccezione
e tu non hai imparato e mai imparerai a contare
e la vita è appesa a una foglia di frasca
non mi proteggerà più
e più non si attarda in ciabatte sulla soglia
quando sfrenato di voglia il cuore mi dice di andare
e non dovrei carezzare il ghiaccio
ma non si affligge del mio errare
perché ha sempre preferito dare
più che celando conservare
più non guarderà le stelle
nelle sere d’agosto
dal terrazzo di rose fucsie e gardenie
con vista sui Peloritani e sull’Aspromonte
né i fuochi d’artificio sullo Stretto
per la festa della Vara
e più non strapperà dal culo ai mocciosi
il verme solitario che li impuzzolentisce e sfiacca
mangiandosi tutta la sostanza e lo scarso nutrimento
degli anni perniciosi dell’anteguerra
della guerra e del dopoguerra
non berrà più gazzosa
e più non offre per amore del prossimo
la solita mezza bottiglia di vino
con qualche stuzzichino di carne secca
alla vicina stizzosa con le pupille sgranate
che bussa imbriaca alla porta
più non s’incamminerà di notte
per il pellegrinaggio alla Madonna Nera
o al santuario dell’Antennammare
e non accenderà candele contro il male ;
e i diavoli che sotto forma di vermi
entrano nella pancia di ogni mortale
e gli tolgono la luce degli occhi
aizzano la mente lo fanno demente
mortuario sotto il suo sudario
e più non mi nutrirà
a panecotto e biancomangiare
e non scoperchierà la pentola
con il bollito di capra
la buona setosa carne di capra
che non mangio da una vita
non taglierà più pelose cotogne a tozzi
e tolto il marcio e il verme
non le passerà bollenti al setaccio
prima dell’aggiunta di zucchero
tanto quant’è il peso della polpa
e non verserà la marmellata corposa
schiarita dal limone
nelle formelle di terracotta smaltata
per caliarla al sole sul balcone di Gravitelli
sotto veli di organza
contro l’arroganza di api vespe e calabroni
non ci sarà più
protettiva e curativa
la sua trasparente cotognata
per la figlia ulcerosa
più non s’arrampicherà sul gelso bianco
come nel ’43 con la pancia di otto mesi
perché golosa delle more zuccherine
non voleva passare il segno della voglia
al figlio che arrivò con gli alleati
e sulla chiappa sinistra ha una stampiglia fragolosa
e più non sbuccerà a mani nude
i fichidindia tenuti al fresco sul balcone
erano il nostro dolce
il torrone gelato d’inverno
dopo cene di borragine e olive
pecorino e fichi secchi
non farà più ricotta né l’infornerà
e più non allungherà con l’acqua
il latte grasso di pecora
che i muccosi viziati sputano
perché vogliono latte di capra
più non farà doni e più non accetta con fervore
il mazzetto di menta fresca il tralcio di peperoncino
o i primi fichi mulinciani che tiene in mano
borbottando grazie ma non si doveva disturbare
cresciuta senza madre e senza cura
e da sempre allenata a fare e a dare
era così contenta e gratificata
che doveva immediatamente ricambiare
con un pezzetto di pecorino un quarto di vino
qualche grammo d’olio o un panino
imbottito di pescestocco alla ghiotta
conoscendo i bisogni dell’offerente
perché conta il gesto mi spiegava
il pensiero che si ha dell’altro
e c’è bisogno di pensarlo l’altro
per non tapparsi gli occhi
davanti all’indigenza e alla sofferenza
rimirandosi nello specchio concavo
del proprio ombelico
non conta la cosa che si dà o si riceve
conta la creatura a cui si pensa e si dà la cosa
e per non sbagliare è sempre meglio dare che contare
e più non mi aspetterà
con le sarde a beccafico pronte
per la cena del ritorno
e non dirà mangia mangia
che sei troppo magra
non sarà più qui
in questa contristata città
un tempo detta babba
nelle umide stanze dello scagno
accanto ai sacchi di carbonella per il focolare
le cannizze per caliare pomodori e fichi
i bidoni militari americani pieni
d’acqua potabile dei Peloritani
e sarà lì dove correva ragazza
e a maggio spicchiava arance amare
più non parlerà
e non ci sono tenaglie per tirare la lingua
quando la morte vince e inghiotte la parola
ma ricordarsi e scambiarla di contrada in contrada
sguittìo sussurro fremito di corde o balbettìo
e sia la morte padrona assoluta dell’ultimo fiato
non farà più giorno
e più non accende la luce
più non avrà colpi per la giostra
e più non lancia anelli al pesce rosso
non raccoglierà più gladìoli in mezzo al grano
e più non strappa al gelso foglie per i bachi
più non si toglierà le spine
e più non succhia favi di miele
non schiaccerà più noci con le mani
e più non apre cozze col coltello
più non perdonerà
e più non accoglie il nemico
non sceglierà più gelato di fragola e limone
e più non sviene
più non tirerà la vita alla vita
e più non dà l’acqua ai fiori di cera
non metterà più capperi sotto sale
e più non ammolla il tonno salato di Milazzo
più non si scrollerà colpe
e più non ha vergogna
non intreccerà più corone di sorbe
e più non scioglie nodi e fiere contorte
più non si sbilancerà per acchiappare
il bambino che cade
e più non cade inciampando nel tombino
non andrà più in giardino
e più non resta chiusa nella casa fortino
più non sentirà la katabba di sant’Agata
e più non fa la novena
non ci sarà non ci sarà e ci sarà
finché c’è la parola che la dice
non fa
nulla può fare nulla può più fare
e nel sogno ha fame e chiede cibo
più non accudisce né picchia