“La nonna non voleva andare in Florida. Voleva far visita a certi suoi lontani parenti nel Tennessee orientale e approfittava di tutte le occasioni per far cambiare idea a Bailey. Bailey era il figlio con cui viveva, il suo unico maschio.
Era seduto a tavola, sull’orlo della sedia, curvo sulle pagine sportive, arancione, del “Journal”.
– Dammi retta, Bailey, guarda, leggi un po’ qui,-disse la nonna con una mano esile sul fianco, sventolando con l’altra il giornale frusciante sopra la testa calva del figlio. – C’è questo tizio che si fa chiamare lo Sbagliato… é evaso dal Penitenziario federale e si è diretto verso la Florida. Leggi un po’ cosa dicono che ha fatto, a quella gente. Leggi.
Io non porterei i miei bambini dove scorrazza un delinquente simile. Non saprei giustificarmi di fronte alla mia coscienza
Bailey non alzò gli occhi dalla lettura, così, la nonna girò sui tacchi e affrontò la mamma dei bambini, una ragazza in pantaloni, dalla faccia larga e innocente come un cavolo, incorniciata da un fazzoletto verde con due cocche in cima, a orecchie di coniglio. Era seduta sul sofà e dava da mangiare al pupo le sue albicocche da un barattolo.”
“Si udirono altri due colpi e la nonna alzò la testa, come una vecchia tacchina assetata che reclama l’acqua, e gridò:-
Bailey, figlio mio! Bailey, figlio mio!- come se le si spezzasse il cuore.
– Gesù è stato l’unico a resuscitare i morti,- riprese lo Sbagliato,-e non avrebbe dovuto farlo: ha mandato tutto a gambe all’aria. Se ha fatto quel che ha detto, allora non ci resta che gettar tutto e seguirlo, se non l’ha fatto, allora non ci resta
che goderci il meglio che possiamo i pochi minuti che ci avanzano: uccidendo qualcuno, bruciandogli la casa o facendogli qualche altra cattiveria. Non c’è piacere al di fuori della cattiveria,- affermò , e la sua voce divenne quasi un ringhio.
– Forse non ha resuscitato i morti,- borbottò la vecchia signora, senza sapere quel che si diceva, e le venne un tale capogiro che piombò nel fosso con le gambe ripiegate malamente sotto di sé.
– Io non c’ero, quindi non posso dire se l’ha fatto o no, – rimuginò lo Sbagliato.- E vorrei esserci stato,- continuò, battendo il pugno per terra.- Non è giusto, che non ci fossi, perché se fossi stato là avrei saputo. Sentite, signora,- disse con voce di testa,-se ci fossi stato avrei saputo la verità. e non sarei come sono adesso.
La voce dello Sbagliato sembrava sul punto di spezzarsi e per un attimo la mente della nonna si schiarì. Vide la faccia dell’uomo accanto alla sua, contratta, come se stesse per piangere, e mormorò:
– Ma tu sei uno dei miei bambini! Sei una delle mie creature!
Allungò la mano e gli toccò la spalla. Lo Sbagliato scattò indietro, come se l’avesse morsicato un serpente, e le sparò tre volte, trapassandole il petto. Poi depose la pistola, si levò gli occhiali e cominciò a pulirli.
Hiram e Bobby Lee tornarono dal bosco e rimasero in riva al fosso a guardare la nonna, mezzo seduta e mezzo riversa in una pozza di sangue, con le gambe incrociate sotto il corpo come un bambino e il viso sorridente rivolto al cielo terso.
Senza lenti, gli occhi dello Sbagliato erano orlati di rosso, pallidi e indifesi.
– Portatela via e gettatela dove avete gettato gli altri,-ordinò prendendo in collo il gatto che gli si strofinava contro una gamba.
– Che lingua lunga, eh?- osservò Bobby Lee, lasciandosi scivolare nel fosso con uno yodel.
– Sarebbe stata una buona donna, se quand’era viva le avessero sparato ogni cinque minuti.
– Sai che divertimento!- rise Bobby Lee.
– Zitto, Bobby Lee,- lo redarguì lo Sbagliato.- Non c’è vero piacere, nella vita.
Questi due brani sono esattamente l’incipit e la chiusura del racconto intitolato
“Un brav’uomo chi lo trova?”, primo di un gruppo di 19 racconti raggruppati sotto il titolo comune ” La vita che salvi può essere la tua”, opera di Flannery O’ Connor ( 1925 / 1964) pubblicato nel 1955.
La lettura, anzi più esattamente la rilettura- a distanza di tempo- di questa raccolta di racconti mi ha confermato la potenza ineguagliabile del suo stile narrativo, e mi ha lasciato – a lettura ultimata- con un senso quasi disagevole di un qualcosa di stremato, che può certo venirsi a determinare quando si incontra un autore che riesce a farci entrare in una visione perturbante della realtà umana, presentataci in modo netto, convincente e sconvolgente, fino a scoperchiare definitivamente qualche nervo fino a quel momento rimasto occultato o per timore personale – a addentrarci in visioni abissali -o per via di una tipologia di narrativa più rassicurante e comune.
Flannery O’ Connor viene considerata come una delle maggiori scrittrici del 900, e di solito viene accomunata al gruppo di grandi autori americani degli stati del sud (Faulkner, Caldwell), di quei territori cioè noti anche anche per fare parte della ormai famosa BIBLE BELT, zona di forte religiosità dove si ha inevitabilmente a che fare con una realtà influenzata dalla stragrande maggioranza di cristiani protestanti, in quell’accezione che raggruppa la destra evangelica, i cosiddetti fondamentalisti
Alcuni critici hanno visto in lei una miscela (deflagrante, non pedissequamente ortodossa aggiungerei io) tra “il fondamentalismo primitivo della regione di appartenenza – la Georgia-e il cattolicesimo romano della sua specifica fede ( si autodefiniva una tomista, suoi autori religiosi di riferimento erano anche Teilhard de Chardin, Maritain, Teresa di Avila), e questa sua convinzione religiosa traspare certo nelle sue storie, ambientate in ambienti rurali o in piccole provincie apparentemente tranquille, tra la cosiddetta “buona gente di campagna “che prima o poi finisce con l’avere a che fare con figure di predicatori con bibbia al seguito, o con filantropi che cercano di soccorrere – contro la loro stessa volontà- persone per qualche motivo devianti e/ o traumatizzate e quindi da convertire . In queste trame e in questi ambienti però, e a un certo punto, (oltretutto quando meno lo si aspetta anche da parte di chi ha un occhio attento) arriva il perturbante, un avvenimento inatteso, un incontro malsano, che porta a derive anche di puro orrore, gli epiloghi sono sotto il segno di un trauma , di una violenza spesso senza limiti e descritta con una crudità estrema e raggelante perché nella scrittura di Flannery O’ Connor non hanno posto gli appigli che un’analisi psicologica potrebbe consentire, certi ammorbidimenti per diminuire la tensione eccessiva.
Certo, si definisce Flannery O’ Connor una scrittrice cattolica, ma questa definizione non la si deve intendere in senso edulcorato o politically correct, visto che nei suoi scritti i criminali fanno discorsi di valore teologico, e il male spesso si annida nelle menti più innocenti e negli ambienti più tranquilli (al perbenismo bigotto, ai ciechi egoismi dei cosiddetti filantropi e benpensanti vengono inferti colpi letali, quasi si volesse dare una sorta di ammonimento) ma forse questa tradizionale definizione autorale – nel caso di una narratrice “potente” quale Flannery o’ Connor e pur con tutti i distinguo possibili e con ogni ulteriore puntualizzazione- a mio modesto e ultrasoggettivo parere risulta un recinto limitante, una definizione in qualche modo riduttiva. Si dovrebbe parlare di Flannert O’ Connor solo come di una straordinaria autrice, di una grande scrittrice tout court, che sa scrutare fino addentro al midollo oscuro- palpitante, irrimediabile, non lineare-delle azioni e delle menti umane senza alcun timore di fissare anche l’abbacinante irrazionale, nella consapevolezza del tragico e del dramma che sempre riemerge, anche nelle vite più consuete e ordinarie e regolari sempre comunque a rischio di essere devastate da una violenza che alcune poche volte potrebbe definirsi pure salvazione
Villa Dominica Balbinot