La vegetariana di Han Kang
“una lunga canna di bambù da cui pendono enormi quarti di carne rosso sangue, ancora gocciolanti di sangue. Cerco di passare oltre ma la carne… non c’è fine alla carne, e nessuna via d’uscita. Ho del sangue in bocca, i vestiti intrisi di sangue appiccicati alla pelle.”
“Ho mangiato troppa carne. Le vite degli animali che ho divorato si sono tutte piantate lì. Il sangue e la carne, tutti quei corpi macellati sono sparpagliati in ogni angolo del mio organismo, e anche se i resti fisici sono stati espulsi, quelle vite sono ancora cocciutamente abbarbicate alle mie viscere.”
La vegetariana è il romanzo più famoso della scrittrice sud coreana Han Kang, vincitrice del Nobel per la letteratura del 2024. Edito in Italia da Adelphi traduzione di Milena Zemira Ciccimarra.
Il linguaggio del romanzo è netto e non fa sconti, le immagini e le descrizioni sono evocative e intense. Racconta la storia di Yeong-hye che fa un terribile sogno di sangue e di boschi e quel sogno è la linea di demarcazione del suo prima e del suo dopo.
Il prima è la vita apparentemente tranquilla di una donna ordinaria, un matrimonio con un uomo mediocre, il signor Cheong, che l’ha sposata solo perché lei è una donna sui generis, né bella né brutta, quasi un oggetto, lui non è costretto a competere con lei. Lei che passa le sue giornate a leggere nella sua stanza, che ogni tanto sottostà con indifferenza alle voglie sessuali del marito, una brava cuoca che cucina i piatti, rigorosamente con carne, preferiti dal marito. Una donna che è figlia di un padre ex militare, un uomo severo e violento che castigava con percosse Yeong-hye e la sorella In-hye quando erano bambine. La sorella è una donna che si è fatta da sé, possiede un negozio di cosmetici a Seul, dove è ambientato il romanzo, che va abbastanza bene e che dà la possibilità al marito, un anonimo uomo e artista fallito, di non lavorare e di esercitare la sua arte di videomaker.
Il dopo è il rifiuto improvviso e categorico di Yeong-hye di mangiare carne. La sua non è una decisione alimentare ma risponde a un preciso bisogno di trasformazione. Yeong-hye vuole sfuggire alla violenza, quella del padre e quella del marito che si manifesta nella sua indifferenza, che la considera e la utilizza come fosse un oggetto, vuole sfuggire alla violenza della società giudicante.
La famiglia non accetta la sua decisione e cerca di convincerla in molti modi, tutto è inutile, lei continua a rifiutare la carne. Il padre, con rabbia e violenza, durante una cena cerca di infilarle in bocca un pezzo di carne. Yeong-hye afferra un coltello e si taglia le vene di un polso.
Il cognato la prende in braccio e la conduce in ospedale. I familiari tutti sono sporchi di sangue di Yeong-hye.
Quel cognato sa, perché gli è stato raccontato dalla moglie, che Yeong-hye ha una macchia azzurra a forma di foglia nella schiena. Spesso presente negli asiatici alla nascita, è una macchia mongolica che poi scompare con l’età. Questo pensiero della macchia mongolica della cognata diviene la sua ossessione. Ne è attratto sessualmente e artisticamente, ne è turbato.
Il cognato, fortemente e intensamente attratto dalla macchia mongolica della cognata, sogna di utilizzarla per realizzare un progetto artistico, desidera dipingerla e trasformare il suo corpo in un’opera d’arte. Lui le chiede di denudarsi affinché, come fosse una tela, possa colorare il suo corpo e decorarlo con motivi floreali. La donna accetta. Lui la utilizza come faceva il marito, come un oggetto. Il cognato in un delirio artistico sessuale dipingerà il suo stesso corpo e avrà un rapporto sessuale con la cognata. Farà delle riprese in tutte le posizioni e angolature. Queste casualmente verranno viste dalla moglie che turbata e arrabbiata li denuncia. L’uomo sarà arrestato per aver abusato della malattia di Yeong-hye, quest’ultima viene rinchiusa in un istituto dove le verrà diagnosticata la schizofrenia.
Yeong-hye inizierà a sentirsi e a comportarsi come un vegetale. La donna vuole diventare una pianta, cammina sulle braccia perché dalle sue mani sgorgano le radici. Si vuole nutrire solo di acqua, anela alla luce come le piante alla fotosintesi clorofilliana. Si rifiuta di mangiare e questa sua ostinazione la potrà portare alla morte, anche se in effetti lei non vuole morire, vuole rivivere come le piante che non muoiono facendo parte di un ciclo vegetativo, che prevede la rinascita durante il ciclo delle stagioni.
Il romanzo può essere visto come una moderna riscrittura dei miti. Il suo desiderio di diventare una pianta non è solo una fuga dalla violenza, ma anche un desiderio di tornare alla purezza originaria, in un mondo privo di brutalità. La macchia mongolica di Yeong-hye, azzurra come l’acqua e a forma di foglia, presenta delle analogie con il mito di Achille nella sua seconda e meno conosciuta versione. Achille si bagnava alla fonte che l’avrebbe reso invulnerabile ma una foglia era caduta dall’albero e si era posata sul suo tallone rendendo quella parte il suo punto debole. Al contrario Yeong-hye è vulnerabile e l’unica parte immortale è nella sua macchia mongolica primordiale, appartenente a un tempo antichissimo, dove esisteva l’ordine e il bene, dove il mondo animale e quello vegetale convivevano in simbiosi, prima ancora della comparsa dell’uomo sulla terra che mangia gli animali, beve il loro sangue e distrugge le piante. Un segno che rappresenta la purezza, uno stato naturale, incontaminato. La scelta di Yeong-hye di lasciare il suo corpo animale per un’esistenza vegetale può essere letta come un modo per rispondere alle domande fondamentali della condizione umana, del conflitto tra la natura umana e quella divina, tra il corpo e l’anima, tra la vita e la morte.
Nella mitologia la trasformazione è spesso una via di fuga da una sofferenza o da una minaccia. Queste trasformazioni rappresentano uno strappo con il mondo umano e una nuova forma di esistenza, proprio come il percorso di Yeong-hye che la porta a rifiutare progressivamente il cibo e le relazioni umane, cercando di identificarsi con una vita vegetale. La storia di Dafne nella mitologia greca è una delle associazioni più immediate. Dafne, per sfuggire ad Apollo, si trasforma in un albero, nel lauro. Abbandona la forma umana per sfuggire alla violenza maschile, come Yeong-hye, che si vuole rifugiare nel mondo vegetale. Entrambe rifiutano la violenza e anelano all’armonia con la natura. La protagonista non parla mai in prima persona; è sempre descritta dagli altri: dal marito, dalla sorella, dal cognato. La ninfa Eco nella mitologia greca è condannata solo a ripetere le parole degli altri. Yeong-hye, come Eco, è una figura silenziosa, la cui storia è sempre raccontata da altri. La sorella è l’unica che si occupa di lei. Il cognato sparisce, lascia che sia la moglie a occuparsi del loro figlio. Il marito si è defilato da tempo, non sa che farsene di una moglie che non cucina e da scandalo con le sue fissazioni.
La descrizione del cognato che dipinge i corpi a motivi floreali per le riprese e i rapporti sessuali che consumano sono quasi scandalose, l’unione di quei corpi è contro ogni ordine, un’unione innaturale fra gli umani e il mondo vegetale. Yeong-hye diventa ogni giorno più magra e fragile, In-hey è sempre più stanca e disillusa, anche lei sta subendo un processo di trasformazione, infatti sussurra all’orecchio della sorella che anche lei fa dei sogni. Il romanzo, disturbante, ha molte chiavi di lettura, esplora mondi diversi, è un viaggio alla Giulio Verne, un viaggio con l’Enterprise, si può scendere nelle profondità degli oceani o della terra o restare in superfice, si può puntare verso l’alto e dirigersi nell’azzurro del cielo, planare, arrivare con i rami in alto ad afferrare la luce, oppure rimanere nel sottobosco e nutrirsi di rugiada. Sta a noi decidere fin dove arrivare.