E fu sera e fu mattina di Francesco Randazzo
E fu sera e fu mattina Dalla Prefazione di Alessandro Ramberti
Il poeta esule ha in sé tracce profonde della nativa Sicilia nella forte compenetrazione di una tonalità sanguigna e abbagliante con il nero assoluto che prefigura l’abbraccio inevitabili che tutti ci attendono, quella soglia inquietante e tenebrosa a un oltre che si fa vivo già nell’ ora che stiamo – non di rado inconsapevoli – trascorrendo (XXI):
semafori cangianti sorridono,
forse un po’ tristi, all’oscurità
che scende dolcemente, i fari
delle auto sembrano stupirsi
per quanta vita il buio nasconda,
e sul ponte degli angeli, passanti
distratti voltano il capo, sorpresi
da un frullio d’ali impossibile .
La poesia di Francesco Randazzo è una lastra fotografica sensibilissima che emoziona e lucidamente registra le ragioni del cuore (del suo e del nostro):
Le voci di chi amammo
si perdono nel tempo,
i volti sfocano nebbiosi,
ma a volte un profumo,
un odore risvegliano
voci e volti, non chiari,
d’improvviso presenti,
e ci si volta, stupiti, in cerca.
La terza sezione, che dà il titolo all’intera raccolta, è una sorta di palingenesi, si descrive una nuova creazione in cui la natura trionfa sull’avidità predatoria e autodistruttiva dell’uomo. I poeti, come i profeti, sanno vedere oltre, lontano e, come Nathan fece con Davide, possono scuoterci, tirarci fuori dalle nostre bolle di transitoria e deleteria onnipotenza. Se non li ascoltiamo, rischiamo di fare la fine del pazzo di Gela (p. 99) che nemmeno / l’aldilà l’aveva voluto, così / era soltanto invisibile, nulla mischiato al niente.
*** Lettura
E fu sera e fu mattina, edita da Faraeditore dell’ottimo Alessandro Ramberti, che stimo sia come editore che come poeta, è una raccolta di sessantatré poesie divisa in tre sezioni: Stanze del paradosso di Schrödinger; Ogni volta c’è un Dio che fugge Libro d’ore, E fu sera e fu mattina. Quest’ultima sezione dà il titolo all’opera.
Una raccolta ricca di spiritualità che si interroga sul significato dell’esistenza e sulla presenza del divino nelle nostre vite. Sono domande che da sempre l’uomo si è posto, del perché della sofferenza, del paradosso di certi comportamenti che non sono mai lineari, e la cui logica l’uomo spesso non riesce a comprendere. Non c’è nessuna certezza nei sentimenti umani e in certi modi di fare. Nessuna giustificazione in certa stupidità umana che a volte sembra prendere il sopravvento sulla ragione. Chiusi nelle nostre case viviamo come fossimo zombie, vivi e morti nello stesso tempo come il gatto del paradosso di Schrödinger: M’avvicino alla finestra, spio le finestre/di fronte, intravedo ombre simili a me,/sono vivi al cinquanta per cento,/sono morti al cinquanta per cento./Ognuno nella sua scatola.
Delle tre sezioni, tutte coinvolgenti, sono rimasta colpita in modo particolare dalla terza che indaga sul quotidiano permeato d’affanno e preoccupazione. Ogni giorno ha il proprio affanno, arriva la sera e il mattino seguente tutto ricomincia, e ogni mattino porta con se terribili angosce e le immagini di morte e distruzione: ecco che appaiono le scolopendre, vetri rotti, le macerie, la gente che grida, un paesaggio apocalittico, dove non c’è più speranza per l’umanità, nel presente solo polvere umana e grigio cemento. La vita è fragile ed è legata a un filo sottile che si può spezzare al minimo turbamento. C’erano mattine senza luce,/ gonfie di presagi obliqui,/ sembrava tutto fosse grigio/ per volere di un dio stremato. Tutto è vano. Una donna cerca di leggere il futuro nei fondi del tè, un cane abbaia al muro chiedendo spiegazioni a chi non ne può dare. Un vecchio si rade e guardandosi allo specchio cerca di ricordare il proprio passato e magari si chiede le ragioni di tutto ciò. Cosa ci è successo e cosa si è diventati? Ma quando ci si addormenta un cespuglio s’incendia e dice:/ “E fu sera e fu mattina, un nuovo giorno”. Tutti siamo chiamato a fare la nostra parte, nessuno escluso. Come cantava Faber nella Canzone del maggio: per quanto voi vi crediate assolti siete per sempre coinvolti.
E compare come epifania la speranza nella nuova umanità, nel nuovo giorno, in un giorno nuovo, in una umanità migliore: Tutti i bambini appena nati pensano: “E fu sera e fu mattina, un nuovo giorno”./ In saecula saeculorum
Questa stanza piena di libri e fumo,
la poltrona segnata dall’usura e il tempo,
le lampade che ingialliscono l’aria,
il televisore acceso in sottofondo neutro,
il tavolo disordinato, le tazze di caffè
arenate, le carte sparse, i medicinali
in attesa accanto al bicchiere d’acqua.
Mi osservo e mi penso, io qui, adesso.
Sono vivo. Sono morto. Probabilità
del cinquanta per cento in ogni caso.
Sono il gatto di Schrödinger. Sono io!
M’avvicino alla finestra, spio le finestre
di fronte, intravedo ombre simili a me,
sono vivi al cinquanta per cento,
sono morti al cinquanta per cento.
Ognuno nella sua scatola. Nel dubbio
della scelta. Nella coesistenza assurda
di vita e morte insieme. Incapaci noi
d’aprire la scatola e condannarci
ad una sola possibilità, terrorizzati
d’essere già morti, d’essere ancora
vivi ma senza merito. Preferiamo
essere il gatto impossibile di Schrödinger.
Il massimo azzardo è credere nel destino,
in un esperimento teorico di una divinità
da implorare. Siamo i gatti più stupidi
che Schrödinger potesse mai immaginare.
E così, mentre penso a tutto questo,
in piedi nella mia stanza scatola,
miagolo a bocca chiusa, a lungo,
perché so che il paradosso Schrödinger
si risolve soltanto se il gatto miagola
ancora. La soluzione più intelligente
non è lo schianto ma soltanto il lamento.
Rido, di questo scherzo, rido e poi
piango un po’, perché lo so, lo so,
che fuori non c’è Nessuno cui importi
se il gatto di Schrödinger sia vivo o morto.
***
Le ribollenti acque del Mediterraneo
innalzano colonne di liquido orrore,
i fondali tremano, s’aprono nere bocche
di lave occulte, liberate dal sonno,
esplodono, s’innalzano, squassano.
Tutte le isole s’inabissano per sempre.
Pesci morti, cadaveri, relitti, coralli,
fluttuano incessantemente sui fondali,
le murene impaurite urlano disperate,
branchi di delfini stridono saltando,
sembra che tutto sia fermo congelato
nel momento eterno di una fine
che arriva e torna indietro sempre
oscillando in presente e passato
in un antartico futuro impossibile.
Dove andranno tutte le anime dei viventi,
uomini, animali, piante, pietre, oggetti?
Di tutto quel che sentivano chi sentirà
ancora?
In quale pensiero non pensato
si dissolverà tutto per sempre?
Ci sarà un silenzio inascoltato
e nessuno e niente potrà dire:
“E fu sera e fu mattina, un nuovo giorno”
***
7.
Scrivo un messaggio a Dio, lo scrivo
pensando a cosa potrei dirgli, chiedo
di capire, capire me stesso e il vuoto
che mi circonda. Lui forse sa, forse lui
sì, conosce il senso di ogni cosa, ecco,
anche le più insensate, io non so più,
lo chiedo a Dio, con la mente bruciata,
invio un segnale, una richiesta urgente
di soccorso. Non voglio niente altro.
Non voglio nemmeno essere salvato.
Non sono pronto ad affrontare il dopo,
quel che sarà nel deserto della prossima
disumanità. Io chiedo a lui soltanto:
Perché?
Potrebbero volerci secoli perché arrivi il messaggio.
Potrebbero volerci millenni perché giunga una risposta.
Sarò paziente, saprò aspettare. Canterò senza parole.
Un puro suono scivolerà dalla mia bocca
verso il cielo, più in alto ancora, oltre l’aria,
oltre lo spazio scuro, oltre le stelle frantumate,
oltre ogni oltre, più in là, più su, fino a che
giunga a Lui la mia domanda e la risposta
afferri il suono e ridiscenda fino a me
dentro la gola, il petto, squassi la mente,
acquieti questo mio cuore ansioso e disperato.
E nel tempo lunghissimo dell’attesa
saprò già che tutto si sarà consumato.
Ma la mia allora polvere e soltanto allora,
brillerà in questo buio e libera saprà volare.
Mando un messaggio a Dio e lo ringrazio.
Sembra stupido e vano: ma cos’altro resta,
quando tutto diventa così disperatamente
inutile, cos’altro,
se non la folgorante idea di Dio?
23.
Se ci fosse un terremoto sarebbe peggio.
Se ci fosse una guerra sarebbe peggio.
Se ci bombardassero sarebbe peggio.
Se ci deportassero sarebbe peggio.
Se ci togliessero la parola sarebbe peggio.
Se fossimo tutti ciechi sarebbe peggio.
Se non avessimo una casa sarebbe peggio.
Se non avessimo l’acqua sarebbe peggio.
Se ci fosse una nube tossica sarebbe peggio.
Se governassero i fascisti sarebbe peggio.
Se fossimo naufraghi sarebbe peggio.
Se non ci fossero gli ospedali sarebbe peggio.
Se non ci curassero gratis sarebbe peggio.
Se si potesse andare a teatro sarebbe meglio.
Se si leggessero più libri sarebbe meglio.
Se si parlasse di più in famiglia sarebbe meglio.
Se si sorridesse di più agli sconosciuti sarebbe meglio.
Se si amassero gli animali sarebbe meglio.
Se si studiasse tutta la musica sarebbe meglio.
Se ci fosse meno presunzione sarebbe meglio.
Se gli ignoranti sparissero sarebbe meglio.
Se mangiassimo meno ma tutti sarebbero meglio.
Se fossimo grati per ogni minuto sarebbe meglio.
Se non ci lamentassimo sarebbe meglio.
Se parlassimo sapendo ascoltare sarebbe meglio.
Se tacessimo quando è il caso sarebbe meglio.
Nessuno pensa che tutti gli altri non lo riguardino
L’autore
Francesco Randazzo , laureato in Regia all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica “Silvio D’Amico” di Roma, lavora in Italia e all’estero come regista e autore. Ha fondato la Compagnia degli Ostinati – Officina Teatro, della quale è stato direttore artistico. Ha pubblicato testi teatrali, poesie (con Fara, Itaca deserta ruggine , 2020), racconti e quattro romanzi. Numerosi i premi di drammaturgia e letteratura nazionale e internazionale. Sue pièces sono state tradotte in spagnolo, ceco, francese e inglese. Con Graphofeel , negli ultimi anni, sono usciti: I duellanti di Algeri (2019), L’amore è quiete accesa (2021) e Freme la vita. I sogni di Goffredo Mameli (2024).
°Immagine di copertina: Angela Gallaro , Maretusa (Primavera) 2012 Cartone telato (cm. 70×70), collage, colori acrilici. Collezione privata Galleria Gallaro. Postfazione di Alessandro Ramberti
° https://www.faraeditore.it/nefesh/Efuseraefumattina.html