Dove non mi hai portata di Maria Grazia Calandrone Einaudi, 2022 Libro incluso tra i dodici candidati al Premio Strega 2023.
Un libro che è giallo, inchiesta meticolosa, poesia, un libro biografico, di denuncia sociale, che racconta una storia vera, una tragedia personale inserita e causata da e in un contesto storico e sociale ben preciso, ben definito e oltremodo antiquato e crudele, dove era prevalente il pregiudizio, la meschineria, il mancato riconoscimento delle libertà personali, dove l’uomo poteva picchiare impunemente una donna, dove un uomo, magari impotente o non attratto sessualmente da donne, ne sposava una ma era libero di picchiarla e infilzarla con la forca, sfruttarla a lavorare nei campi, senza essere perseguito e dove una donna che non aveva figli non era una vera donna ed era socialmente non accettata; dove una donna sposata che aveva un altro uomo poteva essere denunciata e condannata a due anni di reclusione, in un’Italia dove non esiste l’aborto legalizzato e nemmeno il divorzio, dove una donna meridionale che si accompagna a un uomo che può essere suo padre, è additata al pubblico ludibrio, viene messa alla gogna, specie se l’uomo ha già cinque figli.
La donna di cui parliamo, con l’uomo che ama, concepisce una figlia, così è costretta a fuggire, anzi sceglie di andarsene via dal paese pur di stare accanto a lui, sfidando la legge, le convenzioni sociali, il giudizio della gente, l’astio di quei genitori che l’avevano costretta a suon di botte a sposarsi con un uomo che non amava per un pezzo di terra confinante. L’uomo, con il quale la donna fugge e lascia il marito violento e grezzo, non è l’ultimo arrivato, è un uomo che ha fatto dieci anni d’Africa durante il periodo del colonialismo, che ha già una moglie e cinque figli di cui uno gravemente malato, che è un piccolo imprenditore, che veste bene, sa il fatto suo e conosce la vita e il mondo. Quest’uomo si innamora di questa intoccata sposa e diventa il suo primo e unico uomo. I due fuggiaschi affrontano la prova dell’immigrazione in un nord che viene pensato dai meridionali come la terra promessa, in una Milano che tanto lusinga e poi nulla dona, dove negli anni 60 i meridionali vivono nell’estrema periferia che non è neppure considerata Milano e nemmeno periferia ma altro e oltre. Dove si leggono i cartelli: non si affitta ai meridionali, dove l’uomo non trova lavoro come muratore perché è considerato ormai anziano e la donna è costretta ad andare a servizio in nero, perché ricercata dalla legge. Costretta a lasciare la sua bambina di pochi mesi in affido a una struttura pubblica. In questo sfondo sociale ed economico si consuma la tragedia. Stanchi della situazione, certi di non farcela più e di aver dato il meglio di loro stessi, forse avendole provate tutte per emergere, per una vita serena e decente, dignitosa, non vedendo più una via d’uscita i due sventurati architettano un doloroso piano. Da Milano si recano con un autobus a Roma, spediscono una lettera a l’Unità dove dicono che hanno lasciato a Villa Borghese, alla compassione di tutti , la loro bambina di otto mesi e che si stanno togliendo la vita.
Venerdì 25 giugno, ore 10.00: alla redazione del giornale L’Unità arriva una busta spedita da Roma Ferrovia contenente il su detto certificato di nascita e questa lettera: “La bambina trovata a Villa Borghese si chiama Greco Maria Grazia, Nata a Milano il giorno 15 ottobre 1965 [sic!]. L’ho abbandonata in Roma Perché il mio amico non aveva possibilità finanziarie da sostenerla e mio marito cioè suo padre diceva che non era sua. Trovandomi in condizioni disperate, Non ho scelto altro che la strada di lasciare mia figlia alla compassione di tutti, ed io con il mio amico pagheremo ciò che abbiamo fatto, o, indovinato, o, sbagliato. Galante Lucia in Greco”.
Roma, Villa Borghese, giovedì 24 giugno 1965, ore 15.30: il signor Ivo Micucci rinviene una neonata seduta tranquillamente su un piccolo plaid rosa accanto a una bambola di plastica in un prato tagliato dal viale che egli sta percorrendo, Viale Washington. Verrà ricostruito successivamente dall’uomo che, appena egli si sarà chinato per raccogliere la bimba, una figura femminile che sostava nei pressi si sarebbe allontanata in gran fretta. L’uomo porta la neonata nella caffetteria del proprio posto di lavoro, dove si stava in effetti recando: Villa Lubin, sede del Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro. La piccola viene intravista succhiare lieta da un improvvisato biberon da molti dei conferenzieri, tra i quali il deputato del Partito Comunista Italiano Giacomo Calandrone.
I due si lasciano annegare nel fiume Tevere. Il corpo della donna viene riconosciuto dai familiari, quello dell’uomo invece no, la moglie e i figli non lo riconoscono forse per evitare di ereditare i debiti che ha lasciato, forse per dispetto o per disprezzo. La donna si chiama Lucia Galante, ha 29 anni, l’uomo Giuseppe Di Pietro, ne ha parecchi di più, sono i genitori biologi di Maria Grazia Calandrone, la bimba lasciata sopra un plaid sul prato, ben vestita, allegra, ben nutrita, amata, molto amata. E in questo libro inchiesta, all’apparenza fredda, lucida, distaccata affinché possa emergere una verità vera e non mediata dai giornali dell’epoca, dal sentito dire, dai luoghi comuni, come una vera investigatrice con i suoi capelli lunghi ricci e scuri come quelli della madre Lucia, accompagnata dalla figlia Anna che ha un intuito fenomenale nella ricerca della verità che spesso salta agli occhi a chi questi occhi li ha tredicenni puri e limpidi, Maria Grazia ripercorre i tempi, i luoghi, i fatti, ricerca e studia documenti, fotografie, intervista testimoni oculari, esperti, visita città e paesi, racconta di Palata e di Roma, racconta di Milano e della sua periferia. Cita poeti e poesie, cita registi e intellettuali, Pasolini e il suo L’accattone del 1961. Ricostruisce nei minimi particolari la vicenda e ha la certezza, di ciò che in fondo già sapeva, che Lucia Galante, sua madre, ha molto amato il suo compagno, ha molto amato la figlia e che per amore di questa figlia allegra e intelligente, i due genitori amorevolmente hanno escogitato un piano d’amore pressoché perfetto. Demolendo tutte quelle illazioni e cattiverie che i giornali scandalistici dell’epoca , amanti della notizia forte e della cronaca nera, della notizia scoop, allora come ora, avevano scritto solo per cercare di vender più copie. Perché? Fu assassino, fu incitamento al suicidio, lui è scappato e non è morto, fu incidente, lei è scivolata via come Marinella, o è stata spinta giù. Perché lei indossa il costume? Scritto con un linguaggio poetico e preciso come solo la poesia sa essere, come un’inchiesta che ha come motore propulsivo l’amore, Maria Grazia Calandrone ci consegna questo capolavoro, che commuove che fa pensare e riflettere sulle mille sfaccettature dell’animo umano che è capace di efferate azioni e di grandissimi gesti d’amore incondizionato. Dove non l’ha portata? Per amore non l’ha portata nel fondo ma l’ha consegnata alla vita.
Proposto da Franco Buffoni al Premio Strega 2023 con la seguente motivazione:
«Propongo la candidatura del romanzo Dove non mi hai portata di Maria Grazia Calandrone, Einaudi 2022, per il Premio Strega 2023 per due fondamentali motivi: la tenuta stilistica che non viene mai meno nelle 247 pagine del volume; la capacità dell’autrice di coinvolgere il lettore in una vicenda storica e umana al calor bianco. Già due anni fa con Splendi come vita, edito da Ponte alle Grazie, Maria Grazia Calandrone aveva visto pienamente riconosciute le proprie doti di narratrice, ben figurando nella dozzina del Premio Strega. Con questa nuova prova narrativa l’autrice, ben nota da decenni come indiscutibile voce poetica, non solo conferma le qualità di narratrice di razza allora poste in luce, ma le corrobora con una magistrale ricostruzione storica dell’Italia degli anni Cinquanta e Sessanta: riuscendo a ricostruire ambienti e situazioni (il Molise rurale, la periferia milanese in pieno boom economico, Roma magica di altera e sconsolata bellezza) in modo altamente poetico pur se finemente realistico, e dando dei propri genitori biologici tesi verso una tragica fine un ritratto nitido, al contempo profondamente partecipe, ferocemente oggettivo e emblematico nella sua attualità.»