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Sebastiana di Vitaliano Brancati

Sebastiana di Vitaliano Brancati

 

Su Taormina si erge una montagna dalla cima strettissima alla quale si perviene per una stradetta incassata fra giganteschi dadi di pietra e disseminata di ciottoloni come il greto di un torrente. Su questa cima strettissima ha sede un paese di nome Castelmola, un centinaio di case con portoncini alti quanto la schiena di un asino, addossate l’una all’altra, e talvolta arrampicate una sull’altra alla rinfusa, poggiando alcuna porta la soglia sull’architrave di una finestra , mentre un balconcino pianta due denti della sua ringhiera nel gradino di una scala d’ingresso. Le strade si attorcigliano intorno alla chiesa ricostruita di fresco, e ad essa paiono aggrapparsi per non sdrucciolare giù dal monte: corte e strette, dopo due o tre giravolte si arrestano davanti a un cielo abbagliante, a un mare innalzato di mille cubiti sulla riga sottile della spiaggia, a una cascata interminabile di giardini dai quali però non arriva alcun odore, perché il paese sta avvolto in un puzzo di stalla basso e compatto dentro cui nessun vento riesce a farsi strada. Un immenso orologio, ad ogni quarto d’ora, si carica fragorosamente del peso del tempo, e un campanone, che dondolando nelle giornate di sole getta la propria ombra fuori del campanile, scuote i pochi ninnoli sperduti all’interno delle case. E tuttavia anche in questo paese c’è qualcuno che, un dato giorno, compie vent’anni, e calata la sera, quietissima, con una luna nel mezzo del cielo, si mette a sognare dell’avvenire mirando l’ombra delle tettoie, le pietre scintillanti e il mare immenso e opaco. Qui, a Castelmola, vide la luce e visse una certa ragazza, di nome Sebastiana, silenziosissima, umile come una serva di campagna, facile al rossore, alle palpitazioni, vergognosa sempre di non si sa che, pura come l’acqua da bere, avvilita come una povera deforme, lei incomparabilmente bella, paurosa degli specchi sino al punto che le sorelle, per obbligarla a rimirarsi, la dovevano spingere verso la toletta come una pecora restia e, lì giunte, sollevarle a forza le palpebre scoprendo due pupille torte e spaventate. “Questa è la santa pace!” soleva dire Sebastiana. “Questa è la santa pace per me. Lasciatemi stare! A chi faccio ombra? Lasciatemi stare! A voi va di uscire? Uscite! Va di partire da Castelmola? Partite! Ma a me, lasciatemi stare!”. E le sorelle, la madre, il padre la lasciavano stare. Fra quattro piccole mura, Sebastiana era capace di rimanere seduta per ore e ore, emanando all’intorno la verità del suo cuore; umiltà, amore, dedizione, speranza, perdono si versavano pian piano da lei sugli oggetti inerti che ingombravano il tavolo e la credenza, sui poveri animali che si affacciavano dal soffitto al pavimento.

castelmola-etna-300x149 Sebastiana di Vitaliano Brancati

Felice del silenzio, beata di star ferma, rapita dall’essere dimenticata e trascurata, Sebastiana visse fino al nove settembre 1939, giorno in cui prese un febbrone al mattino e al tramonto morì. Fu sepolta nel piccolo cimitero di Castelmola. Ma ahimè! non vi ho detto che questo cimitero sta quasi in bilico su una sporgenza della montagna, e che le tombe han l’aria di far mille sforzi per non precipitare nel vuoto. Da questo luogo cominciarono le disgrazie di Sebastiana, se disgrazie si possono chiamare quelle di un povero corpo abbandonato così presto dall’anima che ha fatto scintillare di purità e modestia. Una giornata di vento il cimitero franò, e Sebastiana, precipitando per il pendio, prima dentro la cassa di noce, poi tutta sola, con l’abito bianco mangiato dal buio e dall’umido, andò a finire in mezzo alla piazza di Taormina. Il primo passante, un vecchio genovese, che si trovò nella piazza deserta davanti a questa ragazza morta da tanti mesi, arditamente distesa nel mezzo del selciato, stava quasi per svenire dalla paura.  Sebastiana fu risepolta nel cimitero di Taormina, presso un sentiero non troppo rumoroso, ma nemmeno silenzioso. Amanti, sposini, soldati, ufficiali, dame della Croce Rossa sfilarono accanto a lei, nelle ore della notte, parlando, baciandosi, canticchiando. Col passare dei mesi, le voci di notte presero un tono particolarmente carezzevole e trepidante, forse a causa del fitto buio in cui mare e terra s’erano chiusi dopo lo scoppio della guerra. Grida e fragori si alternarono a queste voci, poi le scacciarono del tutto. La guerra si avvicinò, si avvicinò, finché un colpo di cannone svelse Sebastiana dalla terra e la precipitò sulla spiaggia di Giardini presso la stazione. Era il ’43, l’anno in cui i tedeschi si ritiravano dalla Sicilia, facendo brutti sogni nei casolari di campagna in cui si abbattevano a dormire accanto alle mitragliatrici e ai binocoli. Un ufficiale bavarese, un perticone4 asciutto, di poche parole, per tre quarti pazzo e per un quarto sfinito dalla fatica di nascondere a tutti che era pazzo, credette di ravvisare nel cadavere di Sebastiana il viso della fidanzata morta in Germania sotto le macerie di un edificio pubblico. A questo punto, la pazzia che egli imprigionava dentro di sé, toccò gli estremi, e quell’avanzo di intelligenza, con cui cercava di soffocarla, rasentò il genio. Egli trovò il modo di chiudere Sebastiana in una cassa di munizioni, questa cassa coprire di un drappo nero, e collocarla nella carretta del cannone, e insieme ad essa retrocedere. Poiché la pattuglia, comandata dal bavarese, chiudeva la retroguardia nella via nazionale, contro la carretta si appuntarono le ire degli eserciti che avanzavano. Un fracasso infernale accompagnò il feretro di Sebastiana nel suo cammino verso il Nord; il mare dello Stretto, che essa attraversò di notte, brulicava di rottami, di morti mezzo divorati, e ogni tanto sfolgorava come il pavimento di un salone accogliendo nel suo seno un aeroplano svampante come una torcia. Il tedesco, muto, nero, accovacciato sulla cassa come un cane sulla tomba del padrone, navigava all’indietro, colle spalle al continente gravido di sciagure e gli occhi alla Sicilia incendiata da un chiarore, misterioso per lui e incomprensibile come la vittoria di quegli uomini tanto meno guerrieri di lui; e così navigando, lentamente cedeva alla pazzia quell’avanzo di intelligenza con cui l’aveva combattuta e coperta. Quando toccò terra, era totalmente pazzo. Sollevò la cassa col drappo nero, salì urlando su un picco, e di lassù scaraventò la povera figlia di Castelmola in fondo a uno zatterone che partiva in quel momento per Trieste. A lumi spenti, senza più bandiere né armi, lo zatterone risalì l’Adriatico, ma all’altezza di Bari fu incendiato, frantumato, affondato, e la cassa con Sebastiana, spinta da un naufrago che vi si reggeva come un salvagente, approdò al porto, ove subito fu caricata su un autotreno e trasportata, senza più drappo, colla scritta “dinamite”, verso il cuore della Germania. Nel maggio del ’44, questa cassa arrivò in un campo di concentramento polacco dove non mancò di scoppiare una battaglia. Dai tedeschi il campo passò ai russi, dai russi ai tedeschi, da questi di nuovo ai russi. Sulla fine di luglio sibili e scoppi perseguitavano ancora la povera morta, come se il mondo feroce, a cui Sebastiana era sfuggita da viva nascondendosi nella casetta di Castelmola, avutone fra le zampe il cadavere, non si stancasse mai di rotolarlo, di sbatterlo, d’intronarlo, cercando di sfogare il suo urlo rabbioso in quell’orecchio reso sereno per sempre da una celeste sordità.

 

Vitaliano Brancati (Pachino, 24 luglio 1907 – Torino, 25 settembre 1954) è stato uno scrittore, sceneggiatore, drammaturgo, giornalista e docente italiano.

Biografia di Vitaliano Brancati