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Rose Freedman, una di noi

Rose Freedman, una di noi

Ricorre oggi, 8 marzo, la Giornata internazionale dei diritti della donna che viene celebrata in Italia dal 1922,  per ricordare le conquiste sociali e la lotta per la parità dei diritti delle donne, nonché le discriminazioni e le violenze di cui sono state oggetto e ancora oggi, purtroppo, lo sono. L’Onu auspica che per il 2030 si possa giungere a una parità di genere.  Si spera che l’Onu non sia troppo ottimista.

Sembra verosimile che la giornata internazionale dei diritti della donna sia nata per ricordare  l’inizio della rivoluzione russa, che stabilì la fine del dominio dei Romanov.  Le donne a Pietroburgo l’8 marzo del 1917 scesero in piazza a manifestare contro la guerra che aveva causato la morte di almeno due milioni di russi. Manifestarono  contro la fame causata dalla scarsità di cibo e contro il freddo causato dalla scarsità di carbone. Si unirono alle donne gli uomini e i ribelli, e perfino i soldati che fraternizzarono con il popolo.

Gira da anni la voce che la cosiddetta “festa della donna” sia nata per ricordare un incendio sviluppatosi a New York l’8 marzo del 1908 nella fabbrica Cotton,  dove  persero la vita centinaia di operaie. L’incendio in questione pare non sia ma avvenuto, non è mai esistita questa fabbrica, non è mai esistito quel tale signor Johnson, proprietario della fabbrica, che sfruttava le donne imponendo loro turni massacranti e chiudendo le porte  per evitare che  uscissero e si distraessero. Prova ne è che al Museum of the City of New York  nell’Upper East Side, dove sono ricordati tutti gli incendi della città non si fa menzione dell’incendio di questa fantomatica fabbrica Cotton.

Nel museo della città di New York è ricordato, invece, un incendio realmente sviluppatosi il 25 marzo del 1911 nella  fabbrica di camicie “Triangle Waist Company” dove persero la vita 146 donne, delle quali 39 italiane, le altre, in gran parte ebree, provenivano  soprattutto dalla Russia. Erano tutte delle giovani donne, la media della loro età era di 19 anni, due di loro ne avevano appena 14. La fabbrica dava lavoro a 500 donne e a quasi 100 uomini.  Aveva sede in un grande palazzo di Washington Place al Greenwich Village e occupava gli ultimi tre piani.

Le operaie lavoravano per sessanta ore a settimana, gli straordinari non venivano pagati, i ritmi di lavoro erano massacranti, la sorveglianza dei caporali si avvicinava molta alla crudeltà, i caporali a loro volta si avvalevano per la sorveglianza di altre operaie ugualmente impietose. Gli ingressi erano chiusi a chiave per impedire alle donne di allontanarsi prima o di arrivare in ritardo. Non esistevano uscite di sicurezza e neppure gli idranti, L’incendio scoppiò un pomeriggio all’ottavo piano e arrivò presto ai piani superiori. La scala antincendio e l’ascensore cedettero subito a causa del peso di tante donne che cercavano di sfuggire alla fiamme.  Le donne si buttavano giù dalle finestre con le gonne al vento che bruciavano, speravano di cadere nelle reti ma si sfracellavano  a terra o morivano avvolte dalle fiamme durante il volo.

Non è mai esistito l’incendio della Cotton ma purtroppo è esistita la Triangle e quell’incendio vero che ha distrutto una fabbrica che sfruttava le donne per pochi spiccioli e senza nessuna norma di sicurezza. Era una  società industriale dove lo sfruttamento dei lavoratori era all’ordine del giorno, specialmente delle donne, che non avevano  alcun diritto, neppure di voto, ed erano considerate inferiori  all’uomo, sia intellettualmente che moralmente e  fisicamente.

Rose Rosenfeld è una delle donne sopravvissute all’incendio. Rose  era nata a Vienna nel 1893 e aveva quasi 18 anni quando scoppiò l’incendio.

emigrazione

La famiglia d’origine gestiva in Austria una fiorente attività di import-export di alimenti secchi. Nel 1909 si imbarcarono tutti sulla Mauretania e si trasferirono a New York. Il padre si dedicava agli studi ebraici e la madre gestiva l’attività di famiglia. Rose voleva sentirsi americana e lavorare come facevano tutti, in seguito a una discussione in famiglia, accettò il lavoro alla Triangle come addetta a cucire i bottoni alle camicie tramite una macchina, nonostante conoscesse sette lingue e avesse una buona cultura. Si salvò dall’incendio perché piuttosto di buttarsi dalla finestra o tentare di scendere ai piani inferiori usando le scale o con l’ascensore come fecero tutte, pensò di salire al decimo piano dove c’erano gli uffici dei dirigenti sicura che loro di certo avrebbe trovato il modo di salvarsi. “Tutti hanno iniziato a urlare e correre verso la scala antincendio. Non ero vicino alle finestre. Ero più indietro e sono rimasta immobile in stato di shock”. Poi si chiese: “Cosa stanno facendo i dirigenti al 10° piano?” Si alzò le gonne e salì dalle scale interne al decimo piano che era vuoto, poi salì sul tetto e li trovò tutti lì. I dirigenti, infatti, avevano preso il montacarichi fino al tetto, dove i vigili del fuoco li stavano trasportarono sul tetto di un edificio vicino, così fece anche lei salvandosi la vita. I dirigenti avrebbero potuto fare pochi passi e aprire le porte chiuse ma non lo hanno fatto. Rose li ha sempre ufficialmente disprezzati per questo, anche se nessuno di loro ha mai pagato per quel mancato soccorso e sono stati tutti assolti. Rose si salvò dall’incendio ed ebbe una lunga vita.

Nel 1927 Rose sposò Harry Freedman, un americano che possedeva un negozio di macchine da scrivere a New York. Ebbero tre figli, due di loro furono colpiti dalla poliomielite, a questi figli si è sempre dedicata con serenità. Il marito morì a 59 anni, lasciandola sul lastrico. Avendo un aspetto giovanile,  fingendo di avere 50 anni quando invece ne aveva 64,  ottenne un lavoro come contabile presso la Manhattan Life Insurance Company dove lavorò fino all’età di 79 anni.

Nel 1995 si trasferì  a Los Angeles vicino ai suoi figli. Rose dipingeva e ha dipinto fino alla sua morte, faceva la spesa e cucinava, andava dal parrucchiere,  frequentava corsi di lingua. A 106 anni ha dichiarato che è stata aiutata nella vita dal suo atteggiamento positivo, si è sempre difesa da sola, ha cercato di non essere mai triste e non farsi mai abbattere dal dolore perché la tristezza toglie gli anni.

Dopo la tragedia uno dei proprietari cercò di convincerla, corrompendola, promettendole mari e monti,   a dichiarare che le porte della fabbrica erano aperte, ma lei si è sempre rifiutata di mentire.  Anzi, per anni, ha lottato per l’approvazione di leggi sulla sicurezza dei lavoratori e ha partecipato costantemente alle  manifestazioni sindacali.

È morta nel sonno a 107 anni, nel febbraio del 2001, ne avrebbe compiuti 108 a marzo,  ultima sopravvissuta a 90 anni dall’incendio della Triangle, che non è l’incendio della fantomatica Cotton, ma un incendio vero, nel quale sono morte 146 donne vere e delle quali Rose Freedman è stata sempre vera testimone. Rose Freedman, una di noi.

a. p

«Al decimo piano, l’ultimo, c’erano i funzionari. Al nono lavoravamo noi, alle macchine. Fu all’ottavo piano, quello dei tagliatori, che scoppiò l’incendio. Erano quasi le cinque di sabato pomeriggio e mancava poco alla fine della giornata. Il tempo di sentire il puzzo di fumo e scoppiò il panico. Tra i ritagli di stoffa, il legno dei pavimenti e i nostri vestiti, le fiamme si propagavano velocissime. Tutti gridavano e correvano per mettersi in salvo, ma le porte di uscita erano sbarrate. I padroni avevano paura che rubassimo, o che facessimo troppe pause, così ci chiudevano dentro. Decine di ragazze si accalcarono sulla scala antincendio, che era troppo sottile e si spezzò. Quelle poverette precipitarono giù». Rose Freedman